Profumo di Rosa sotto la brina

Un libro-album di 200 pagine ripercorre le tappe che hanno portato alla Beatificazione di suor Maria Rosa Pellesi, una documentazione attenta e carica di stupore, frammenti di esperienza, schegge luminose di vita, intense aspirazioni, il tutto coniugato a indicibili sofferenze fisiche e morali, sempre accolte nella fede e vissute come richieste d’amore da parte di Dio.

profumodirosa

Profumare di santità e di perfetta letizia la nostra Diocesi, sull’esempio dell’ultima Beata della nostra bella Chiesa riminese, suor Maria Rosa Pellesi”: era l’augurio rivolto alle Religiose e ai Religiosi il 15 settembre 2007, al mio ingresso in “questa terra incantevole, percorsa da generosi fermenti di bene, ma anche attraversata da rischi e problemi”.
E ora ho il piacere di presentare questo libro “Profumo di Rosa sotto la brina”, che ripercorre le tappe che hanno portato all’evento mirabile della Beatificazione di suor Maria Rosa.
In un suo scritto afferma: “Vorrei parlare della mia gioia, della gioia pura che dà il Signore quando si fa allegramente la sua volontà”. Da questa gioia si sprigiona intenso un “profumo di Rosa sotto la brina” delle vicende umane.
Le pagine che seguono non vogliono essere una storia della sua anima, ma rivelano, attraverso una documentazione attenta e carica di stupore, frammenti di esperienza, schegge luminose di vita, intense aspirazioni, il tutto coniugato a indicibili sofferenze fisiche e morali, sempre accolte nella fede e vissute come richieste d’amore da parte di Dio.
Dalla ricca corrispondenza di suor Maria Rosa con il suo direttore spirituale, con le superiore, le consorelle, i familiari, le degenti dimesse dal sanatorio, e dalle testimonianze di chi l’ha conosciuta da vicino, appare lo sconcertante paradosso evangelico della sua vita: il dolore accolto e offerto fino alla consumazione di tutta se stessa, e la gioia che sgorga da un cuore che sa cogliere tutte “le gocce del tempo”, di cui parla Sant’Agostino, per imprimervi un sigillo d’amore e rinviarle a Dio.
Riflettendo sulla vita di suor Maria Rosa, nasce spontanea una domanda: come può essere nella gioia una vita religiosa trascorsa per soli tre anni in attività apostolica con i bambini della scuola materna e per ben ventisette in un sanatorio dove viene percorsa la strada della malattia, della solitudine, della croce?
Suor Maria Rosa risponde: “Mi sento avvolta da un abbraccio reale”; proprio per questo il suo letto le è “tanto caro”, e dirà: “Ho il cuore stretto in una morsa di ghiaccio, ma Gesù è tutto per me, sono felice, felice, felice”: “innamorata e felice”. Solo così è possibile!
Chi è stato vicino a suor Maria Rosa testimonia che la sua felicità cresceva nello scorrere dei giorni, quasi direttamente proporzionale all’acuirsi della sofferenza fisica, e si irradiava da due poli di attrazione: la cappella, luogo prediletto della sua intimità con il Signore, e il reparto del sanatorio, dove la sua presenza diventava carità, speranza, dono continuo di un sorriso che rifletteva il sorriso di Dio.
Vorrei che questo libro suscitasse in molti il desiderio di approfondire la spiritualità di suor Maria Rosa, la sua intima relazione con Dio e con le creature. Senza dubbio anche nel nostro cuore risuonerebbero, come inno di ringraziamento e di benedizione, le parole di Gesù: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4).

Sua Ecc. Mons. Francesco Lambiasi,
Vescovo di Rimini

 

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Rara come un’antica pergamena sigillata la Beata Maria Rosa Pellesi era poco conosciuta, ma la sua Beatificazione certamente ha rivelato la vera dimensione di una vita apparentemente irrilevante e il fascino di questa vergine francescana, tanto docile a Cristo da assomigliarGli, da assumerne la forma si diffonderà ovunque.
Non fu la tubercolosi ad isolarla in sanatorio per 27 anni, ma l’ineffabile Disegno della Trinità che, volendola realizzata e santa, la pose nella situazione ottimale per plasmarla a Suo piacimento.

Suor Maria Rosa è diventata lentamente un capolavoro di umanità e di amore, di abbandono e di obbedienza, di mansuetudine e di fortezza. Diceva: “Che Gesù agisca per costruire sulle macerie della mia miseria, quel capolavoro che Egli si è prefisso fin dall’Eternità.” Capolavoro che il Santo Padre ha voluto immortalare nel tesoro della Chiesa.

Sebbene in sanatorio i giorni si scrivessero con poche varianti, il mistero della vita di Suor Maria Rosa è di notevole fascino; la sua santità è nitida, avvolta, sì, in un alone di ineffabilità ma nel contempo, incarnata in un contesto disadorno, dove ben poco rimane alla creatività. Avvicinarci a lei è incontrare il Signore; era questa, infatti, la netta impressione di chi andava a visitarla. Accanto a lei si pacificava l’anima, si fortificava lo spirito, si recuperava la vista sulla realtà; il contesto che prima pareva insopportabile tornava a colorarsi. Il suo cammino spirituale è tanto lineare da sembrare facile, ma sarebbe ingenuo pensarlo tale. Ventisette anni di travaglio interiore e di patimenti fisici. Appena superata una sofferenza, ne sorgeva puntualmente un’altra, inderogabile e peggiore; lei pativa ma non cedeva allo smarrimento, fieramente in corsa, quotidianamente in lotta, costantemente protesa al dono di se stessa.
Ha vissuto lo strazio dello sradicamento e l’aridità estrema; parlava del sanatorio come del suo esilio, del suo deserto. Per attraversare deserti inaccessibili occorre diventare sabbia… Lei definirà l’amore del Signore: misterioso, doloroso, amoroso, ma più di tutto lo chiamerà eccessivo, constatando l’eccedenza dell’amore per la capienza del suo cuore orante e amante, che già accoglieva ogni frammento di realtà per tessere umanità e adorazione.

I referti documentavano il rapido degenerare della malattia, la terapia chirurgica e farmacologica falliva, i medici scuotevano il capo, le altre degenti venivano dimesse a decine, a centinaia, e lei era sempre lì, dolce e paziente, debole, inappetente, con l’affanno e la tosse, in quel morire lento. Spesso l’agonia s’annunciava d’improvviso e le sfiorava l’anima ma poi retrocedeva, lasciandola stremata. E in tutto questo, lei coglieva le carezze del suo Signore.
Testimonia il Dottor Rossini: “Quante volte, per necessità di cure, ho trafitto con grossi aghi il costato di Suor Maria Rosa; io solo, certamente più di mille volte. Un giorno le contai dalla cartella clinica; ma altri medici, per anni ancora, dovettero continuare quell’intervento quotidiano. Io non ho mai sentito – dico mai – un lamento: non aprì bocca”.

Si sente amata da un amore folle, inabissa lo sguardo in quello del Crocifisso, accosta le labbra al calice cui beve lo Sposo (cfr Mc 10,38) e le labbra si tingono di porpora. Non è più sanatorio, è Golgota. Spreco d’amore, sì, perché chi ama non può che sprecare. Era un continuo fluire della vita di Cristo nelle sua piccola esistenza e, per non implodere, incanalava tanto torrente nel cuore delle Sorelle e dei Fratelli.

La preghiera che era nutrimento per lei, diventava missione per gli altri. Il Vangelo si faceva strada nella sua debolezza. Pativa il malessere ma non cedeva all’insoddisfazione; mai rassegnata, mai recriminante, sviluppava una fede stabile come un cuneo nella roccia ed era felice del martirio d’amore celebrato nella fragilità. Davvero Suor Maria Rosa si è consegnata, come un’agnella.

Era dunque un destino da sposa quello preparato dal Gran Re all’incantevole ragazza di Pigneto: aveva ricevuto in dote la nuda croce e quale diadema il dolore, assieme all’inestimabile grazia di un cuore felice, sin da quaggiù: “Ho il cuore stretto in una morsa di ghiaccio ma sono felice, tanto felice, che mi pare impossibile esserlo di più.”

Suor Maria Rosa è la prova compiuta di un cammino certo; ci conferma che la santità è una via percorribile, possibile e felice, purché venga colmata la distanza che ci separa dalla croce di Cristo – sempre più vicina di quanto lo pensiamo! Lei non solo ha raggiunto la meta, ma la indica; è segno di trasparenza, di rimando a Cristo Signore.

La sua Beatificazione è come una folata di vento impetuoso che fa tremare gli stipiti delle porte e muove ogni cosa in profondità; viene a toccare nervi scoperti, punti nevralgici; viene a darci quello scossone che risveglia dal torpore; è un “disorientamento” salutare che potrà dare alla nostra vita stabilità e luminosità.

Suor Maria Gabriella Bortot
Superiora Generale

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